L’anoressia non cura l’obesità

Nel febbraio di quest’anno un articolo apparso sul Journal of International Dietary Disorders, ha suggerito un collegamento apparentemente rivoluzionario: l’anoressia nervosa potrebbe contenere il segreto per sconfiggere l’obesità. In altre parole, i comportamenti delle persone anoressiche fornirebbero strumenti per rendere più efficace la perdita di peso nelle persone obese.
L’anoressia nervosa è una patologia complicata associata ad un’altissima mortalità. Ne soffre più o meno lo 0,5% delle donne e di queste il 10% circa muoiono per la malattia. Ad ucciderle è la fame e il collasso metabolico, con conseguenze cardiovascolari letali.
Le persone impegnate nella perdita di peso, invece, anche quando raggiungono buoni risultati raramente li mantengono a lungo. La tendenza a ingrassare nuovamente è piuttosto comune. Nell’articolo si ipotizza che i (pochi) obesi che riescono a mantenere a lungo la perdita di peso abbiano alcune caratteristiche simili alle persone anoressiche:
– assumono una dieta monotona e ripetitiva, con poche calorie e grassi
– la minima deviazione dalla dieta comporta un riacquisto di peso
– quanto più tempo riescono a mantenere la perdita di peso, tanto più è improbabile che lo riacquistino. Col passare del tempo, inoltre, diminuisce lo sforzo per mantenere i risultati. I comportamenti che permettono di mantenere il peso diventano automatici.
– dal punto di vista fisiologico, entrambi i gruppi sono predisposti a riacquistare peso. Entrambi presentano bassi livelli dell’ormone della sazietà (leptina) e livelli più elevati dell’ormone della fame (grelina). Il profilo metabolico di entrambi i gruppi è, dunque, orientato a riprendere peso. Entrambi, tuttavia, con i loro comportamenti riescono a contrastare la forza della spinta biologica.
Un risvolto inquietante del parallelismo tra i due gruppi è che mentre nell’anoressia il comportamento orientato a mantenere la perdita di peso è considerato una vera e propria malattia, nell’obesità lo stesso comportamento è incoraggiato e premiato. L’articolo, dunque, suggerisce che la ricerca prosegua per trovare un sistema per insegnare a (tutti) gli obesi la stessa “ricetta magica” che le anoressiche conoscono molto bene.
Scienza ed etica non vanno quasi mai di pari passo, ma in questo caso il problema sembra essere un altro. L’articolo in questione, infatti, contiene un’impressionante serie di stereotipi e pregiudizi culturali. Non solo li mantiene e li diffonde, ma sembra ignorare la drammatica complessità della condizione anoressica. Se il riduzionismo biologico è quasi sempre ottuso, in questo caso è anche certamente pericoloso.
Dal momento che nella nostra cultura la “quantità” di salute è ritenuta inversamente proporzionale al peso corporeo, magro è sempre meglio di grasso. Questo vero e proprio mito implica che la perdita di peso sia sempre sana, anche quando è dovuta alla fame. Il problema reale è che gli obesi non sono considerati dai medici come potenzialmente anoressici, anche quando perdono percentuali significative del loro peso.
Per quanto il DSM V non preveda più rigidi criteri relativi al peso per porre una diagnosi di anoressia, tuttavia i medici continuano a ignorare la drammaticità di alcune perdite di peso, salvo poi porre una diagnosi di anoressia quando può essere davvero troppo tardi. Il grasso, insomma, non protegge dall’anoressia.
Il punto centrale, dunque, è che i disturbi del comportamento alimentare sono in realtà sottostimati nelle persone sovrappeso. Questo anche perché ci si affida molto di più a criteri fisici che non psicologici. Ciò che si dovrebbe osservare non è solo il Body Max Index (BMI), ma soprattutto l’atteggiamento nei confronti della dieta e il livello e il grado di preoccupazione sulle forme del proprio corpo e sulla propria immagine corporea.
Fonte:
– Long-term weight loss maintenance in obesity: Possible insights from anorexia nervosa? Int J Eat Disord. 2017;50:341–342. https://doi.org/10.1002/eat.22685
, , , and .
Letteralmente, anoressia significa mancanza di appetito , ma tale definizione non rende appieno il problema psico-patologico che si cela dietro questo termine.