La guerra può causare depressione e ansia?

Volti sfregiati, corpi mutilati, sguardi stravolti, smarriti. Le testimonianze di quanto sta accadendo in Europa sono raccapriccianti. Il conflitto per l’annessione russa della Crimea è cominciato il 26 febbraio 2014; già da allora la popolazione ucraina registrava la più alta percentuale europea di disturbi depressivi. L’aggressione dell’Ucraina è iniziata il 24 febbraio 2022. Da quel giorno i palinsesti mediatici e i social media non hanno lesinato i dettagli di una guerra sempre più globale e duratura. Purtroppo guarire da un disturbo depressivo è ancora più difficile se chi sopravvive rimane nel territorio colpito. Ad oggi sono 7,1 milioni gli sfollati all’interno dell’Ucraina.
Da una parte, conoscere cosa sta succedendo ci rende consapevoli e ci permette di capire i prossimi scenari sociali ed economici; dall’altra, l’aggiornamento spasmodico induce i più fragili a cadere nel doomscrolling. Al di là di una responsabile dieta mediatica da seguire, stiamo già vivendo le conseguenze di una guerra vicina al nostro Paese. Infatti, davanti a un conflitto armato, spettatori, rifugiati e militari vivono un trauma fortissimo. Abbiamo un’idea dei danni visibili – come gli edifici dilaniati dai bombardamenti – ma i danni psicologici causati dall’imbracciare un’arma o dal rifugiarsi dalle esplosioni sono peggiori, invisibili e pericolosi. Vediamo come la guerra abbia delle conseguenze sulla nostra salute mentale.
Quali effetti produce la guerra sulle persone?
Paura della morte, angoscia, senso di impotenza, ansia, attacchi di panico, disturbi del sonno e dell’alimentazione, depressione. Sebbene osserviamo da lontano gli eventi bellici, questi sintomi sono innescati da una paura latente: e se accadesse anche da noi? Sapremmo proteggerci? Cosa ne sarebbe delle persone che amiamo? Ci troviamo a vivere una condizione di incertezza che non pensavamo di dover affrontare.
Shell shock: la psicosi traumatica causata dalla guerra
Chi opera sul fronte di guerra (militari, infermieri, dottori, giornalisti), e chi cerca di mettersi in fuga vive per un tempo indefinito un alto livello di stress psicologico.
La tensione vissuta per non morire causa un affaticamento psichico prolungato, che porta alla neurastenia. Si tratta di un disturbo funzionale del sistema nervoso che dà luogo a diversi sintomi: stanchezza di tutti i muscoli, parestesie cefaliche (intorpidimento della testa), palpitazioni, senso di costrizione toracica, inappetenza, stitichezza, diminuzione dell’appetito sessuale e depressione con abulia, cioè svogliatezza (fonte enciclopedia Treccani).
L’osservazione di questi sintomi, già sui reduci della Prima Guerra Mondiale, portò lo studioso Charles Samuel Myers a coniare nel 1915 il termine shell shock (‘psicosi traumatica da bombardamento’, fonte Collins dictionary). Dal 1980, la psichiatria lo ha riconosciuto come Post-Traumatic Stress Disorder (PTSD), cioè disturbo post traumatico da stress (abbreviato in italiano in DPTS).
Amigdala e iperresponsività: cosa accade al nostro cervello
Di base, ognuno di noi dispone di modelli mentali che ci permettono di comprendere il mondo e di raggiungere una condizione di stabilità e sicurezza. Purtroppo la guerra scompagina tutto questo: i modelli mentali a cui ci affidiamo sono inadeguati a ripristinare la sicurezza; ci sentiamo ansiosi, angosciati, in pericolo. Davanti a una minaccia per la propria vita il cervello attiva i circuiti nervosi della paura e dello stress. Se questa risposta adattiva viene stimolata per periodi prolungati, provoca delle modificazioni cerebrali. Infatti, le esperienze che viviamo modificano le connessioni tra i neuroni: lo scopo è di trattenere le informazioni utili del proprio vissuto, per avere più probabilità di sopravvivere.
Il trauma si genera quando le modificazioni strutturali del nostro cervello ci fanno perdere il controllo del circuito di allerta e paura (fonte Scienza in rete). Se in condizioni normali le strutture del cervello sono controllate dalla corteccia prefrontale, in condizioni di pericolo il comando viene affidato all’amigdala. Si tratta della struttura sottocorticale, più primitiva, che rende i nostri comportamenti istintivi. Quindi, davanti a una minaccia entriamo in modalità attacco o fuga: l’amigdala rilascia adrenalina, cortisolo, e tutto ciò che è necessario per dare una risposta fisiologica utile a sopravvivere.
Una conseguenza dell’esposizione prolungata agli eventi traumatici sono le memorie fobiche:
associamo a una minaccia uno stimolo esterno che un tempo avremmo considerato neutro. Facciamo degli esempi: un semplice rimbombo distante diventa un’esplosione; l’avvicinarsi di una persona un tentativo di aggressione. Eppure siamo al sicuro, il contesto è cambiato; malgrado non ci siano minacce all’esterno, persistono dentro di noi. Quando accade questo significa che la corteccia prefrontale non riesce a riprendere il controllo sull’amigdala, che adesso ci mantiene in allerta anche in assenza di pericoli. In una condizione del genere, è probabile soffrire di attacchi di panico. Di fatto, stiamo vivendo un disturbo da stress post traumatico innescato dai traumi e alimentato, tra i vari fattori fisiologici, anche da un’amigdala divenuta iperresponsiva.
Dissociazione e iporesponsività: la resa estrema ai pericoli
Sul versante opposto di un perenne stato di allerta, alcuni di noi reagiscono alle minacce con la dissociazione. È come se il nostro cervello staccasse la spina: la corteccia prefrontale inibisce gli stimoli propriocettivi, l’amigdala, e tutto ciò che in condizioni normali si adopererebbe per dare una risposta di attacco o fuga. Il nostro corpo è come addormentato, inerte. Proprio come l’iperresponsività, anche l’iporesponsività è una risposta maladattiva, cioè non adatta all’ambiente circostante. Quando siamo dissociati non ci permettiamo di vivere le emozioni, nemmeno quelle positive, e rischiamo di cadere in uno stato catatonico, in cui viviamo e riviviamo dei ricordi a cui cerchiamo di trovare un senso. Il problema è che la guerra, con i suoi effetti, non ce l’ha un senso.
Quali conseguenze mentali affronta chi torna da una guerra
Ad oggi, le persone che vivono in luoghi di conflitto sono 489 milioni; tra questi ci sono 155 milioni di bambini, di cui 122 milioni hanno un ritardo della crescita. Chi vive nei Paesi in guerra è probabile che soffrirà anche di denutrizione (fonte ActionAid). Questi numeri sono destabilizzanti, ci fanno sentire fragili, impotenti. Davanti a eventi così smisurati, se vogliamo aiutare il prossimo e noi stessi, chiediamoci cosa possiamo fare di concreto per l’altro.
Per prima cosa esistono le reti solidali per fare delle donazioni economiche o di beni di prima necessità. Oppure, impegniamoci in attività di volontariato per toccare con mano il bene che possiamo generare. Infine, occupiamoci di noi stessi. Se le notizie allarmanti della guerra in corso ci trasmettono ansia, senso di impotenza, fino a disturbare la qualità del nostro sonno, chiediamo la consulenza di uno psicoterapeuta. Avvalersi del supporto specializzato di uno psicologo ci aiuterà ad uscire da una sensazione di paralisi, e ci investirà di un ruolo attivo nel prenderci cura della nostra salute mentale.