Esiste una predisposizione biologica all’anoressia?

C’è sostanziale accordo sul fatto che l’anoressia sia un problema sociale e culturale oltre che psicologico: è cioè un problema che riguarda la collettività oltre che l’individuo che ne soffre.
Questo perché la pressione socio-culturale gioca un ruolo importante nello scatenare i disturbi alimentari. Anche quando il disturbo alimentare origina da traumi personali (violenze subite in passato, ad esempio) l’ideale di bellezza e di magrezza proposto dalla società si presta a diventare una via per il manifestarsi del problema, un modo per esercitare almeno un controllo in mezzo a tante insicurezze.
E se invece, oltre ad una ragione culturale, ce ne fosse una biologica?
La ricercatrice statunitense Alix Timko racconta di essersi sempre domandata come mai si parlasse tanto di anoressia, una malattia spesso non diagnosticata se non tardi, che ha il tasso di mortalità più alto tra le malattie psicologiche, pur essendo un disturbo raro e che riguarda una percentuale scarsa della popolazione.
Insomma la domanda era: se siamo tutti esposti alla stessa cultura perché il problema è di pochi?
Lo stereotipo dell’anoressia è quello di una ragazza ossessionata dal suo aspetto che probabilmente si porta sulle spalle situazioni familiari conflittuali quando non totalmente disfunzionali.
Uno stereotipo che nelle ricerche della dott.ssa Timko ha iniziato a sgretolarsi: ha conosciuto ragazze anoressiche che non avevano mai fatto una dieta, ragazze che non sembravano particolarmente interessate al peso corporeo, persone anoressiche con famiglie funzionali, circondate da affetto e supporto.
Allora dove si trovava il comune denominatore?
Secondo la Timko, una caratteristica comune è la fame: il fatto di non mangiare, di evitare il pasto fa sentire bene le persone anoressiche, una sensazione di benessere anche fisico, come lo descrivono alcuni anoressici e anoressiche.
La Timko insieme ad altri ricercatori pensa che ci sia una causa biologica dell’anoressia: cioè una predisposizione genetica nel modo in cui il cervello “gratifica” l’organismo dopo alcuni comportamenti e che fa scattare questo “interruttore del piacere” dopo il digiuno e non dopo aver mangiato come avviene per la maggioranza della popolazione.
L’idea è che l’anoressia poggi su un fattore ereditario che può avere delle concause psicologiche ma con una forte origine biologica da cercare soprattutto nel DNA, come l’obesità o il disturbo ossessivo compulsivo.
La genetica dell’anoressia
La dott ssa Lori Zeltser della Columbia University ha iniziato a scavare a fondo per capire il collegamento tra genetica ed anoressia: una delle sue scoperte fu una variante di un gene dei topi che è presente anche in persone anoressiche.
Normalmente non ha effetto sul metabolismo e la nutrizione dei topi, ma appena vengono introdotti elementi di stress e disagio il topo smette di mangiare.
E non ci sono solo prove sui topi: le evidenze scientifiche sono moltissime, a iniziare da studi effettuati sia in Nord Europa che negli Stati Uniti, su anoressici che sono anche gemelli omozigoti, trovando un tasso di ereditarietà del 60% superiore anche al cancro al seno che è al 30% e alla depressione, 40%.
L’impressione però è che questo “interruttore genetico” dell’anoressia non sia soltanto legato al meccanismo di reazione allo stress ma causi vere e proprie modifiche nel metabolismo: tra i dati analizzati dalla dottoressa Zeltser c’è la scoperta che olanzapina, un antipsicotico che nei pazienti causa forti aumenti di peso, negli anoressici non ha questo effetto collaterale, come se l’anoressia rendesse immuni all’effetto collaterale di un farmaco che invece può causare anche obesità in pazienti non anoressici.
Il dibattito nella comunità scientifica è aperto: c’è ancora chi pensa che la pressione culturale e i modelli sbagliati siano le cause principali dell’anoressia e attribuisce alla predisposizione genetica, che può esserci, una rilevanza minore.
Per studiosi come Zeltser e Timko, invece, è probabile che l’anoressia sia qualcosa da trattare come l’obesità: ci sono molti fattori ereditari che condizionano sia il metabolismo sia il modo in cui il cervello reagisce ai pasti.
Al momento la ricerca è in corso, ma la buona notizia è che le terapie psicologiche come la FBT (family based therapy) che coinvolgono tutta la famiglia, offrono risultati positivi soprattutto quando la famiglia è decisa a mettercela tutta per la terapia. Si tratta di un approccio differente rispetto ai classici “centri di recupero” per disordini alimentari, che a volte non funzionano o danno effetti limitati nel tempo.
Se hai il sospetto che tua figlia (o tuo figlio) abbia un disturbo alimentare grave, è il momento di consultare un professionista per muoversi con sicurezza e avviare un percorso che aiuti la guarigione.