Come la psicologia ha aiutato la società ad accogliere l’omosessualità

Accettazione e cambio di atteggiamento. Il matrimonio tra persone dello stesso sesso è sempre meno un tabù. La scienza psicologica ha contribuito in modo significativo a raggiungere questo traguardo. Solo negli Stati Uniti, negli ultimi vent’anni, la percentuale dei favorevoli ai matrimoni omosessuali è passata dal 27 al 61%. Sul finire degli Anni Settanta del secolo scorso, gli statunitensi che auspicavano un riconoscimento delle relazioni gay e lesbiche si attestavano al 41%. Nel 2015 quel sentimento comune ha raggiunto il 68%. Cosa ha originato questo cambio di prospettiva? Da dove è cominciato?
La scienza psicologica ha il merito di aver aiutato questo cambiamento in tre modi sostanziali:
- dimostrare l’assenza di patologie connesse con l’essere omosessuale
- far luce sull’ereditarietà geneticaindagare in modo scientifico le ragioni dell’omofobia
Nella seconda metà del Novecento gli studi pionieristici di Evelyn Hooker portarono a cancellare l’omosessualità dalla lista delle patologie mentali.
Fino agli Anni Cinquanta c’era la credenza diffusa che l’omosessualità fosse correlata con la criminalità e la malattia mentale. I campioni oggetto di studio erano sempre costituiti da persone detenute o affette da patologie mentali. Quindi l’ipotesi di un rapporto di causa ed effetto trovava una facile conferma, benché fallace.
La prima studiosa a porsi in discontinuità con la tradizione scientifica fu Evelyn Hooker, psicologa dell’Università di California a Los Angeles (UCLA). Anche Hooker, come il resto della comunità scientifica, era stata istruita secondo la teoria che vedeva l’omosessualità come una patologia.
I fatti che la portarono a rimettere tutto in discussione accaddero a margine di una conferenza del 1956. Nel suo discorso Hooker testimoniava quanto i soggetti omosessuali studiati sembrassero tutto sommato in salute ed equilibrati. Giorni dopo fu un suo ex studente gay a chiederle espressamente: “Adesso Evelyn, è un tuo dovere scientifico studiare gli uomini come me”.
Tra scetticismo e difficoltà, Hooker ottenne una borsa di studio dall’Istituto Nazionale di Salute Mentale. Selezionò un gruppo di trenta uomini omosessuali, e un altro di trenta eterosessuali da usare come gruppo di controllo. Nessuno dei sessanta uomini aveva mai chiesto o era stato sottoposto a una cura psichiatrica. Per la prima volta gli omosessuali venivano studiati fuori da un contesto medico o detentivo.
La Hooker dimostrò quanto fosse impossibile distinguere quali test fossero stati svolti dagli uni invece che dagli altri. Posti l’uno accanto all’altro, i profili dei due campioni erano indistinguibili. I soggetti in buona salute mentale e quelli con patologie erano equamente distribuiti. Non era possibile dimostrare da un punto di vista empirico la presenza di una patologia.
Dunque, le ricerche di Hooker furono le prime ad attestare quanto l’omosessualità non avesse patologie connesse. I gay e le lesbiche sapevano relazionarsi altrettanto bene nei rapporti lavorativi e in quelli amorosi. Nel 1973 l’Associazione americana di psichiatria cancellava l’omosessualità dalla lista delle patologie mentali. Essere gay o lesbiche smetteva di essere considerato una malattia.
Sulla storia della dottoressa Evelyn Hooker è stato girato anche un documentario, diretto dal premio Oscar Richard Schmiechen: Changing Our Minds: The Story of Dr. Evelyn Hooker (1992).
Negli Anni Novanta cade un altro stigma: si riconosce l’ereditarietà genetica dell’omosessualità.
Sul finire degli Anni Settanta in molti credevano che l’omosessualità fosse per lo più una libera scelta. Dobbiamo alla psicologia il merito di aver scoperto quanto l’essere gay o lesbiche sia una caratteristica intrinseca dell’individuo. Gli studiosi che operarono in questa direzione furono Bailey e Pillard. I loro studi divulgati nel 1991 partivano da questo presupposto: se l’omosessualità è un tratto ereditario, le persone più strettamente correlate dovrebbero avere lo stesso orientamento sessuale. I risultati della loro ricerca evidenziarono l’omosessualità come tratto ereditario nel 70% dei casi studiati. Altre ricerche hanno portato alle stesse conclusioni, sebbene con percentuali diverse.
Le origini biologiche dell’omosessualità derivano da molteplici fattori: reti genetiche, variazione degli ormoni materni durante la gravidanza, e le interazioni tra tutti questi fattori. Oggi, a dispetto del secolo scorso, è aumentata la consapevolezza di come essere gay o lesbica sia una qualità naturale, e non una questione di scelta.
1972: nasce la parola omofobia, l’atteggiamento ostile di chi teme di essere omosessuale.
Fu lo studioso Weinberg a coniare il termine omofobia. Dalle ricerche condotte sui pazienti in terapia emerse che i comportamenti omofobi erano causati da una fobia reale, basata sulla paura repressa di essere omosessuali.
Le persone con un pregiudizio anti-omosessuale hanno più probabilità di essere razziste, anti-femministe ed etnocentriche (cioè a disprezzare chiunque si discosti dal proprio gruppo di appartenenza). Il principale indicatore di questo pregiudizio risiede in chi manifesta una “personalità autoritaria”: questo soggetto adotta comportamenti di sottomissione verso le figure autoritarie, accompagnate da un desiderio di punire tutti coloro che violano il codice morale tradizionale, e una forte paura che la moralità convenzionale possa venir meno.
Le conquiste della società contemporanea devono molto alla psicologia. Le ricerche sul campo degli psicologi hanno dimostrato quanto l’omosessualità non sia connessa ad alcuna patologia mentale, e quanto invece sia dovuta ad aspetti ereditari del codice genetico. Ha fatto inoltre chiarezza sui pregiudizi e l’autoritarismo che portano all’omofobia.